Due persone si abbraccianoVoglio cominciare a raccontare da prima di ora, da allora, quando tutto era già difficile. Ero donna, madre, moglie ma soprattutto figlia ed anche un po’ stanca. Perché quando vivi solo per gli altri rischi di dimenticarti. Non voglio meriti, né li merito, voglio solo far sentire un po’ del peso che mi sono portata addosso quando mia madre era la donna buona e cara che è sempre stata ma anche rigida, severa e restia alle risate.

La sua malattia, l’epilessia, era il ricatto che mi spingeva a fare esattamente ciò che voleva. Tipo smettere di ridere se sentir ridere in quel momento le dava fastidio, tipo non uscire di casa se non per fare la spesa. Tipo tante cose che non ha senso elencare. Ed io vivevo così, seduta su una sedia davanti ad una tela con ago e filo in mano a creare quadri. Un punto ed una croce, mentre portavo sulle spalle la mia senza lamentarmi. Per far sì che tutto andasse nel miglior modo possibile. Per evitare quelle crisi, le sue. Di lei. Rapidamente sfoglio quelle giornate orrende, le sofferenze ultime di mia madre, fino al suo ultimo respiro. Il mio primo. Detto così mi dipingo spregevole. Ma come potrei spiegare a parole quanto non ho vissuto? Generalmente si racconta la vita, non la non vita. E che lei mi perdoni, l’ho amata tanto, se in sua assenza mi sono sentita libera. Ho viaggiato, sì, perché vivere in un’isola significa avere il mare ma in qualche modo ti isola, i miei occhi sentivano l’esigenza di vedere altro, oltre. Direzione Roma, chi ci vive, chi la conosce, lo sa. Roma è Roma. Mi è entrata dentro e dirò una cosa buffa che solo chi vive dove vivo io può comprendere, lì è tutto più grande. Persino i portoni.

Un’altra aria, altri colori, voci, gente, ma soprattutto un altro cielo. Ed io ero felice, perché potevo ridere e vivere. Sono trascorsi così due anni, ero ancora una donna, una madre, una moglie ma avevo anche una vita, mia, tutta mia. Lavoro, vacanze, risate, risate, risate. Una mattina d’agosto mi sveglio e mi stiracchio quando, forse spinta dal destino, poggio la mano sul petto e sento una protuberanza. Gulp! – Ornella, stai calma – mi dico. Ma fu subito panico, inevitabilmente. Mi affrettai e senza esitazione corsi dal medico di famiglia. Avrei voluto scoprire di stare ancora dormendo e avrei voluto risvegliarmi, ri Stiracchiarmi e non appoggiare la mano lì, proprio lì. Ma ho da subito sentito l’istinto di dover affrontare quello che ancora non sapevo cosa fosse. Mi consigliò di fare la mammografia e l’ecografia, solo sentirgli dire che dovevo fare questi accertamenti mi ha fatto sentire come… come.. avete mai fatto un castello di carte? Poi il vento ci soffia sopra e tutto crolla. Non lascio trascorrere tempo, faccio subito gli accertamenti che hanno accertato che si trattava di un C5. C5? Che diamine è? Non capivo e neanche volevo, lo chiamavano così il mio carcinoma, sì, maligno. Maligno. Che brutta parola. Bisogna intervenire, eliminarlo. Non mi diedero tempo neanche di pensare. “Interveniamo così e cosà, poi vediamo com’è e se è così poi facciamo cosà”. Panf Panf. Fermate il mondo voglio scendere [Cit.]

Pensavo di non capire, ma in realtà avevo capito benissimo. Era come ritrovarsi in un tunnel, no, non era come ritrovarsi in un tunnel, ero esattamente dentro un tunnel, dal quale non puoi tornare indietro, ma solo fermarti lì o andare avanti. Sapete cosa avrei voluto fare? Andare in vacanza, ma sì, in vacanza, a respirare l’aria, a vivere. Ma non potevo, no, perché dovevo affrontare ciò che mi era piovuto addosso, o più precisamente dentro. Fu stabilita la data dell’intervento, che arrivò molto presto. Il mio primo letto d’ospedale. A cinquanta anni. Cinquanta anni. Lo ripeto perché cinquanta, così disteso, me li fa sembrare tanti. Mezzo secolo. Mai prima di allora, fortunatamente, ero stata all’ospedale per me. E mi ci ritrovai a, ripeto, cinquanta anni per un carcinoma al seno. Il C5. Ma, ero serena. Non lo dico tanto per. Ero davvero serena. Entrai in quella sala operatoria e ne uscii dopo non ricordo precisamente quanto, due orette, forse. E fu come risvegliarsi una mattina di agosto stiracchiarsi e appoggiare la mano lì, sul petto, senza nessuna protuberanza. Sì, perché l’avevano tolta. Andò tutto bene. Bello no? Quando va tutto bene. Ma poteva andare davvero tutto così bene? (Qui gioco a fare la piccola fiammiferaia).

Le metastasi, sì quelle maledette, erano già altrove. Dove? Nel fegato. Mi ha fregato quel C5. “ sei ancora dentro al tunnel Ornella “. Chemio. Sì, chemio, ci vuole. “ Signora, vada a tagliare i suoi lunghi capelli ché quando li vedrà cadere a ciocche sul cuscino potrebbe avere un trauma “ riGulp! Sapevo le possibili conseguenze di una chemio terapia, ma quando la dottoressa mi disse così fu come un pugno nello stomaco. No, non un pugno, una pugnalata. Piansi. A dirotto senza interruzioni. Ti fermi lì o vai avanti? Io, vado avanti, perché voglio vivere. I capelli li tagliai, dopo tutto non sto poi così male con i capelli corti. E la dottoressa aveva ragione, li persi davvero. Piovevano sul cuscino. Ma ero preparata. Foulard, uno più carino dell’altro e… non lo dico per vantarmi ma mi stava bene, così mi dicevano. Chi tanto per dire qualcosa, chi perché lo pensava davvero. Chemio su chemio. Dovevano essere cinque cicli, ma diventarono nove, poi mantenimento, poi altri nove cicli ad infusione, mantenimento e ancora cicli. Così, per tre anni, ininterrottamente. Sì perché, mi hanno spiegato che le mie metastasi al fegato si abituano al farmaco e quindi non smettono di riprodursi. Maledette.

Ora faccio una terapia in pastiglie ( non per questo meno pesante) ma almeno i miei capelli ricrescono forti e folti. Devo dire, voglio dire, col tempo, più lo affronti e meno ti fa paura. Quando entri in quel tunnel di cui ho scritto sopra incontri altre persone, nello stesso e in altri, alcuni con una prospettiva di fuoriuscita da questo molto più lontana, in poche e semplici parole, incontri chi sta peggio di te. Incontri chi non ha speranza, chi si arrende, chi non si arrende e comunque muore, sì perché si muore. Si muore tutti. Ed è proprio perché si deve morire, in un modo o nell’altro, che ho scelto di morire con la consapevolezza di aver affrontato questo tumore, che ti cambia l’umore.

Voglio provare a cambiare per un momento prospettiva e guardare me, la mia vita e il cancro dall’alto o da un lato, ma a debita distanza e non vedo una donna che ha sofferto prima e dopo con una breve parentesi felice, vedo una donna che affronta la vita per come è, che ha imparato proprio grazie alla malattia ad apprezzare le piccole cose che prima non vedeva, che spesso nella vita si tende a non vedere. Dal semplice sorriso degli infermieri alla carezza di chi ci ama. Non voglio di certo parlare della vita con presunzione, con il naso all’insù espressione tipica di chi pensa di aver capito tutto. No, io non ho capito niente della vita, non ho trovato molti sensi, se non quelli unici, ma ho scoperto quanto alcune cose siano superflue ed inutili, quante siano le battaglie errate per le quali ci si batte, appunto con il solo scopo di ottenere qualcosa che non ti rimarrà. Nulla ci appartiene se non la nostra vita ed è solo per quella che mi batto, oggi. Per poter ancora godere delle piccole cose, dei piccoli gesti, di una risata. Banale eh? Ho accantonato il sogno di raggiungere la luna, mi basta la terra. Non so se riesco a farmi intendere, non sono mai stata brava a trasmettere le mie sensazioni. Voglio solo dire che, la vita è tosta e bisogna trovare il coraggio, in Dio o in chi si vuole, ma bisogna trovarlo, per affrontare tutto. Fortunatamente non restano solo le fatiche, la gioia di brutto ha il fatto che non dura mai troppo, ma di bello ha il fatto che fin quanto dura ti fa scordare ogni male. E non nascondo, anzi, è bene dirlo, che si affronta tutto con paura. Una fottuta paura. Ma questa si dilegua alla presenza di un abbraccio, di un sorriso, di un gesto. E mi sento di dire abbracciamoci, facciamoci abbracciare, sorridiamoci, per non sentirci soli e sapere così di poter combattere, abbattere anche un tumore.

[ E il mio pensiero corre a mio fratello Luigi che ha affrontato e combattuto un cancro come un guerriero coraggioso e ci ha lasciato il ricordo dei suoi sorrisi ]