sun-heart-autumn-leaf-39379Permettetemi di ringraziare tutte le persone che credono che dar voce ad un paziente in un convegno di oncologia sia utile e produttivo, per chi parla e per chi desidera ascoltare.

Confesso che quando mi è stato proposto il tema su cui riflettere ho provato una sensazione insolita: mi immaginavo di fronte ad un contenitore vuoto da riempire a partire da un “ciò”; consapevole che ci sono tante cose che vorrei dire e raccontare ai miei curanti. Tra le tante ve ne sono alcune che non vengono dette o vengono solamente accennate per la mancanza di circostanze adatte. Argomenti che richiedono tempi di ascolto diversi rispetto a quelli imposti dall’organizzazione ospedaliera, che si trova a dover gestire numeri sempre più elevati di pazienti.

Oggi scelgo di riempire il contenitore vuoto offrendo la mia esperienza, il mio vissuto, alcune pagine della mia vita che, come accennato, non capita spesso di raccontare. Con questa scelta penso di parlare a nome di tante persone che vorrebbero gli si desse voce, per dire, per raccontare le rispettive esperienze. Testimonianze di gente comune per mezzo delle quali attribuire significati altri  ai dati clinici riportati nelle cartelle, e, attraverso le quali, lanciare un messaggio di una qualche utilità a chiunque desidera ascoltarle.

Sono una paziente oncologica, lo sono stata per la prima volta nel 2001 e, dopo anni, lo sono nuovamente. La malattia e le cure che seguo mi costringono a mettermi continuamente in discussione, e giorno dopo giorno cambio il modo di vedere la vita e di vedere me stessa, scoprendomi diversa in termini fisici e identitari. La malattia mi ha portato a subire cambiamenti fisici importanti di cui il corpo, attraverso le cicatrici e le ferite ancora aperte, si fa portatore di memoria. Una sorta di memoria individuale, soggettiva, intima. Sono segni biografici che rinviano al mio vissuto, ai quali attribuisco molteplici significati non facilmente descrivibili.

Ad esempio, la cicatrice della mastectomia rinvia ai miei 27 anni e alla paura di morire, alla sofferenza fisica, all’immagine del mio viso allo specchio che scopre il   “nuovo” corpo. Rinvia alle parole sussurratemi da mamma e al silenzio di papà che mi abbraccia con la sua tuta blu da meccanico. La cicatrice rinvia alla decisione di mia sorella di sposarsi per il timore di perdermi in fretta. Rinvia alla rabbia che provavo quando prepotentemente, nei mesi estivi, saltava fuori dagli indumenti ed io mi torturavo all’idea che tutti la notassero, mentre avrei voluto nasconderla, cancellarla.

Mi ricorda il dispiacere che provavo all’idea di non poter allattare e la consolazione di avere l’altro seno per farlo. Ancora, rinvia alle frasi abbozzate per presentarla nell’intimità. Dieci anni fa quella cicatrice era segno di qualcosa che mi avevano tolto, ma anche segno di qualcosa che avevo perso. Era qualcosa in meno nel mio corpo e, paradossalmente, qualcosa di ingombrante perché difficile da gestire fisicamente e psicologicamente.

Oggi fa parte del mio corpo e della mia identità. È segno di un passaggio di crescita interiore: qualcosa in più nel mio modo di essere per capire quanto di effimero il dono della vita propone, tanto che sarei disposta a perdere un altro seno, a non riconoscermi mai più coi capelli, a sopportare nuovi dolori fisici pur di vivere ancora.

Fanno parte di me anche un genere di ferite che non si sono mai cicatrizzate e che, spesso affermo, nessun macchinario diagnostico sarebbe in grado di individuare, neanche quello che si basa sulle più recenti acquisizioni della fisica e della biochimica. Nell’immaginario collettivo tali ferite vengono localizzate all’altezza del cuore, e la cinesica le legge nel movimento della mano portata al petto. Mi riferisco ad esempio alla ferita, al dolore e allo stravolgimento che la malattia ha portato nella mia famiglia. È vero che dal punto di vista chimico biologico è nata nel mio corpo e si nutre del mio corpo, ma è ancor più vero che, come metastasi, si è diffusa nella sfera degli affetti colpendo anche le loro vite, perché seguendo un processo sincronico la malattia scrive la mia vita e segna quelle di chi mi sta accanto.

Ancora, potrei riferirmi al sentimento che provo quando penso al posto che occupo nella società e a quello che pensavo di aver costruito e raggiunto. Ho dedicato anni allo studio universitario e post universitario per confezionare vesti indossate fugacemente e sfilate con l’arrivo della malattia. Una sfiga impietosa, concedetemi l’espressione, per dire che, pochi mesi dopo aver firmato il contratto di assunzione a tempo indeterminato, una pet mi avvertiva che nella vita ero/sono a tempo determinato.

Probabilmente qualcuno starà pensando che il verbo “avvertire” è improprio, e che avrei dovuto utilizzare il verbo “ricordare”. Non è una svista, né un errore, per me. E non vorrei che qualcuno ora stesse bisbigliando: -nella vita siamo tutti precari-. So benissimo come funziona il ciclo della vita, e che anche il patriarca biblico Matusalemme, alla fine, seppur dopo  969  anni, è morto anche lui.

Permettetemi almeno di dire che c’è una differenza enorme tra me che dico  – ho paura di morire –  e chi, nell’ambiente ospedaliero, per sprovvedutezza o perché colto di sorpresa, risponde: – anche io ho paura di morire, potrei essere travolto da una macchina! -. La differenza sta nella spensieratezza.

E la spensieratezza nella mia storia sta bene con l’imperfetto. Con il passato. Era la condizione mentale che mi permetteva di condurre un’esistenza serena nella quotidianità e di volgere lo sguardo al futuro, dando per scontato di poter crescere, invecchiare, sognare, desiderare, realizzare. In una parola: vivere.

La differenza, inoltre, sta nel modo di concettualizzare il tempo e di farne uso. Prima della malattia il tempo era comprensivo delle tre dimensioni:  passato, presente, futuro e tutte le esperienze venivano ordinate secondo queste categorie. C’era il tempo del ricordo  (il passato), c’era l’oggi  (vissuto per lo più in famiglia, al lavoro, con gli amici), c’era il futuro.

Con l’arrivo della malattia le cose sono cambiate: mi resta il passato, ricordato con malinconia, e mi resta l’oggi vissuto secondo i ritmi imposti dalle cure che non concedono tanti spazi. Il futuro, invece, avverto che si accorcia, e non con la vecchiaia. Lo scrivo e non mi sembra vero. Tutto è assurdo ed egoisticamente ingiusto.

Prenderne coscienza origina sofferenza, tristezza, rabbia. C’è un’espressione in lingua sarda che bene si presta per descrivere cosa si prova: è un’espressione utilizzata quando ci si trova dinanzi a un dolore molto forte, l’espressione “esti una cosa troppu manna”,  per dire,  “è una cosa troppo grande” da affrontare, gestire, da rielaborare.

Avverto la paura. No, le paure.

“Ho paura di morire” non significa ho paura di chiudere gli occhi.

La paura di morire non è racchiusa nell’ultimo respiro. Non giunge quando il cuore cessa di battere.

Inizia prima.

È iniziata quando due anni fa una pet parlava di  “presenza di malattia nello scheletro”,  i marcatori continuavano a salire e con loro saliva la mia incertezza. In effetti la malattia si era appena “risvegliata”, la pet e i marcatori lo avevano annunciato tempestivamente, ma le tac inizialmente non vedevano nulla.

Che confusione!

Quattro mesi dopo una seconda pet confermava la ripresa di malattia, e ne mostrava una rapida diffusione. Avevo metastasi ossee ma gli organi erano “puliti”,  avevo imparato a dire. Poi qualcosa si “sporca”, anzi,  si “lede”:  i referti parlano di lesioni epatiche.

Quella, la paura, non è una ma tante. È la paura del distacco dai miei cari, la paura di non vedere  crescere le mie adorate nipotine. È l’apprendere che un ulteriore schema terapeutico non è più efficace. O anche vedere l’organismo, saturo di farmaci, ribellarsi ad un comune cortisone.

È la paura di non riuscire a gestire al meglio il tempo.

È la paura di avere paura.

Ho cercato di raccontare la mia esperienza di malattia attraverso la descrizione di alcuni suoi aspetti, consapevole di averne messo in ombra tanti altri, troppi, perfino per essere solamente elencati.

Ci vorrebbe più tempo e mi servirebbero altre capacità di scrittura per cancellare le distanze che inevitabilmente restano tra quanto ho cercato di comunicare e quanto vi ho trasmesso;  tra me che ho vissuto l’esperienza e voi che l’esperienza l’avete ascoltata attraverso il mio racconto.

La speranza è di aver “comunicato” qualcosa in più rispetto al profilo costruito dalla commissione medica che mi ha esaminato per l’accertamento dell’invalidità civile,  che qualche mese fa, dopo una visita durata dieci minuti e acquisita la documentazione clinica scriveva:

“Esame obiettivo: H 163 cm;  P  70 Kg.  Porta il busto ortopedico. In discrete condizioni generali per età e sesso. Cicatrice chirurgica in regione mammaria destra + cavo ascellare, ben consolidata. Non evidenti disfunzioni articolari dell’arto superiore destro. Tono dell’umore depresso”

La citazione che ho riportato mi è utile per ribadire quanto sia difficile raccontare un’esperienza di malattia, e quanto sia complesso descrivere come ci si sente ad essere pazienti oncologici. È difficile farlo in prima persona e, come dimostra l’esempio, è complicato anche per chi è chiamato a “descrivere” l’altro.

La citazione tratta dal verbale, inoltre, fa bene emergere come il linguaggio possa diventare rischioso e ingannevole quando rimane intrappolato nella dicotomia  malattia/salute (la commissione ha adoperato l’espressione “discrete condizioni generali”), spogliando entrambe le parole della multidimensionalità, della complessità insieme esistenziale, sociale e culturale a cui esse rinviano. Urge, forse, riflettere sull’uso delle parole che quotidianamente adoperiamo per descrivere e interpretare il paziente:  il visibile e l’invisibile che gli appartengono.